mercoledì 19 giugno 2019

Psicoterapia e Ipnosi Vigile





“L’ipnosi non esiste, tutto è ipnosi!” diceva Milton Erickson, l’ipnoterapeuta più affermato e famoso del secolo scorso. E’ una massima impregnata di una verità profonda, poiché in realtà tutti viviamo quotidianamente la nostra ipnosi, e proprio il modo in cui la viviamo determina ampiamente il nostro equilibrio psicofisico, più o meno armonico. L’ipnosi è uno strumento molto potente ed efficace, di cui può disporre uno psicoterapeuta per aiutare i proprio pazienti a superare o quantomeno  mitigare i loro malesseri: quando uno psicoterapeuta conosce e sa usare l’ipnosi, può utilizzarla anche al livello “ipnoidale”, vale a dire di “ipnosi vigile”. Quando una psicoterapia sia utilizzata efficacemente da uno specialista competente, che sia in grado di creare una buona “alleanza terapeutica” e di utilizzare opportunamente metodo e tecnica, allora l’ipnosi vigile diventa una componente essenziale del processo terapeutico. Ma che cos’è l’ipnosi vigile? Vi propongo un estratto dal libro “Ipnosi e suggestione in psicoterapia” da me scritto in coautoraggio nel 2005, appunto il paragrafo dedicato all’ipnosi vigile. Oggi, alla luce di 13 anni di esperienza clinica, e di un utilizzo continuo del counseling psicologico, della psicoterapia e dell’ipnositerapia, posso affermare senza dubbio che l’ipnosi vigile è una componente essenziale che nella mia pratica professionale mi ha consentito di aiutare tanti pazienti.
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«Uno dei concetti di maggiore importanza, formalizzati da Granone (fin dal 1962), riteniamo sia quello di “ipnosi vigile. Infatti Franco Granone  è stato il primo ricercatore a formalizzare il concetto che esiste uno stato di trance ipnotica molto leggero, in cui ancora si ha l’azione preponderante della critica e in cui il soggetto funziona allo stato di coscienza vigile, ma nel quale le suggestioni  possono comunque esercitare molto efficacemente effetti curativi e ristrutturanti, agendo sui livelli profondi della psiche ed esercitando un’azione subconscia, e durante il quale si possono comunque produrre considerevoli alterazioni della suggestibilità, della volontà e somato-viscerali.
Ma vediamo nello specifico cosa Granone intende per ipnosi vigile: «L’ipnosi vigile è una particolare condizione che definisco di suggestiva passività psicosomatica, durante la quale si possono avere anche importanti modificazioni somatiche (analgesia, contrattura, catalessi), apparendo integra la coscienza del soggetto e del pari, entro determinati limiti, la sua capacità di riflessione e di critica. Con la conservazione di queste, il paziente non può tuttavia sottrarsi al dominio dell’idea suggestionante. Si ritiene, con Grasset, che il soggetto che subisce la suggestione allo stato di veglia, si trovi di fatto in uno stato di ipnosi parziale, con i sintomi della veglia al posto di quelli della ipnosi profonda» (Granone, 1983).
Possiamo ritrovare lo stesso concetto anche in altri autori, sebbene con sfumature diverse, primariamente a partire dallo stesso Bernheim, che riteneva la suggestione come un fenomeno caratteristico anche dello stato di veglia e non solo dello stato ipnotico. Ovviamente sappiamo però, che la suggestione può agire in misura amplificata negli stati ipnotici più profondi, in quanto essi aprono dei canali preferenziali di comunicazione coi domini inconsci della nostra psiche.
Tuttavia, è certo che la suggestione operi in modo efficiente anche nell’ipnosi vigile, anche se ci sembra doveroso compiere una distinzione fra suggestionabilità in stato di veglia (assimilabile all’effetto placebo), per cui si ha una forma di comunicazione mente-corpo più generale ed automatica, in cui entrano in modo preponderante vari tipi di aspettative (culturali, soggettive, ecc.), e la suggestionabilità ipnotica, in cui invece si accede ai propri schemi di comunicazione mente-corpo solo attraverso l’impiego della suggestione psicologica. Ecco come E. Rossi riferisce al riguardo, relativamente alle ricerche di F. Evans sull’effetto placebo:
«In condizioni sperimentali di laboratorio, la suggestione ipnotica e l’effetto placebo sembravano funzionare per mezzo di meccanismi diversi o a diversi livelli di risposta. Un modo per comprendere tale differenza consiste nel dire che la responsività ipnotica è una dote specifica e innata che comporta la capacità di accedere ai propri schemi di comunicazione mente-corpo, o di mutarli, soltanto attraverso l’impiego della suggestione psicologica. L’effetto placebo, per contro, è una forma di comunicazione mente-corpo più generale e automatica che utilizza i metodi di cura della medicina per ridurre l’ansia e facilitare la guarigione, schierando in campo contro la malattia potenti aspettative culturali e cieca fiducia nei confronti del metodo di cura. Altri ricercatori credono che, anche se l’effetto ipnotico e quello placebo sembrano diversi per il modo in cui vengono facilitati a livello socioculturale, sono in realtà delle modalità essenzialmente simili di attività mentale creativa a livello psicobiologico, dove vengono mediate dall’emisfero cerebrale destro del paziente» (Rossi, 1987).
Che la suggestione possa esercitare potenti effetti psicofisiologici anche durante il normale stato di veglia, o in quella condizione che Granone chiama di “ipnosi vigile”, ce lo testimoniano svariati fenomeni, dall’effetto placebo ai casi di suggestione mortifera o di “morti vudu”. E in merito alle morti vudu per suggestione, alcune interessanti testimonianze ci sono state fornite dal ben noto fisiologo Walter Cannon in alcune sue pubblicazioni, in cui concludeva sostenendo che la morte vudu era dovuta a un’intensa e prolungata esposizione allo stress emotivo di credersi sotto l’incantesimo di uno stregone. La causa fisiologica effettiva era costituita da un’iperattivazione del sistema nervoso simpatico. A tal proposito anche Granone, in merito al potere della suggestione riferisce:
«Nelle pratiche di suggestione mortifera sembra che la vittima sapendo di essere stata esorcizzata e considerando la propria morte ormai inevitabile, finisca col rifiutare il cibo e morire di fame. Si tratta di morti lente, spontanee, prive di giustificazioni etiopatogenetiche e di fondamento clinico, descritte tra alcune popolazioni primitive in varie parti del mondo: Australia, Africa, Nuova Zelanda, Nuova Guinea, Polinesia, Nord e Sud America (Antonelli, 1981). Koch Isemburg scrive: “Soltanto i saccenti europei ridono del fatto che la sentenza di morte pronunciata dallo stregone può uccidere un uomo. Noi europei dei tropici lo sappiamo benissimo. Data la forte influenzabilità psichica degli indigeni, bisogna credere che la suggestione sia un agente patogeno capace anche di uccidere, specie in una cultura che crede senza riserva a magie, maledizioni, tabù, malocchio e ad ogni altra forma magica” […] La morte psicogena non è solo prerogativa dei popoli primitivi, essendo stata registrata nel ventesimo secolo tra i prigionieri di guerra americani, detenuti in campi di concentramento, in Giappone o in Corea, pur senza che essi presentassero segni clinici di deperimento fisico (malattia del bambù). Questi prigionieri ad un tratto, diventavano svogliati, trascurati, chiusi in sé stessi, non mangiavano più e, avvolgendosi in una coperta, manifestavano un forte desiderio di essere lasciati soli. La morte, secondo le testimonianze di Katz, Nardini, Strassmann e Mayer (Antonelli, 1981), sopraggiungeva dopo pochi giorni. In questi soggetti l’autosuggestione, per arrivare a tali estreme conseguenze, deve evidentemente trovare una particolare costituzione mentale e facili correlazioni psicosomatiche.» (Granone, 1983), e ancora:
«Una specie di suicidio psichico si verifica anche con una certa frequenza negli anziani, che sentono crollare tutti i valori della vita; anche se in essi la diagnosi di morte si compendia poi nella solita sommaria formula di collasso cardiocircolatorio. Di fatto, per questi soggetti il non essere acquista lo stesso valore dell’essere senza speranza, né fiducia in qualche cosa o in un futuro, anche se breve» (ibidem).
In merito ai meccanismi psicofisiologici dell’effetto placebo e della suggestione ipnotica, Rossi ritiene (prescindendo dal grado di profondità della trance), supportato dalle più recenti ricerche in ambito neurofisiologico, che essi siano mediati da un meccanismo comune o da un vincolo comune di comunicazione tra la mente e l’organismo, e che in particolare il sistema limbico-ipotalamico sia il più ovvio candidato anatomico al ruolo di connettore tra mente e corpo. Secondo Rossi, questo sistema cerebrale è un canale unico di comunicazione psicofisiologica tra le aspettative ed i processi creativi della mente e la fisiologia emotiva del corpo, e sarebbe il comune denominatore che media l’effetto placebo in situazioni palesemente diverse (dalla fede ingenua per un trattamento medico o farmacologico, alle aspettative di segno negativo relativamente alle morti vudu, alle guarigioni connesse alle interpretazioni positive e gli stati d’animo positivi), e gli effetti psicoterapeutici delle suggestioni e della trance ipnotica (Rossi, 1987).
Abbiamo ritenuto opportuno aprire questa parentesi relativamente all’effetto placebo e all’azione della suggestione in vari casi di stati di coscienza vigile, poiché crediamo che l’argomento sia comunque connesso al concetto di ipnosi vigile sviluppato da Granone, e inoltre per meglio comprendere a quali livelli possa esplicarsi l’effetto della suggestione. Pensiamo che ora disponiamo di un quadro compiuto per comprendere il concetto di ipnosi vigile e l’effetto della suggestione, sia che si eserciti su un soggetto in stato di coscienza vigile o in trance ipnotica, dai livelli più superficiali a quelli più profondi. Riteniamo molto probabile che la condizione di base comune all’influsso suggestivo nelle diverse circostanze, sia comunque uno stato di ipnosi vigile, e che il meccanismo neurofisiologico che costituisce il comune denominatore dell’azione e degli effetti suggestivi sia l’attivazione di particolari distretti cerebrali, in particolare come la più recente ricerca sembrerebbe suggerire, il canale limbico-ipotalamico. In questi processi, naturalmente intervengono pur sempre fattori di notevole influsso, la particolare attitudine psicofisiologica del soggetto ricevente, e quella dell’emittente (ovvero dell’ipnologo o psicoterapeuta), e la dinamica del rapporto interpersonale, come precedentemente trattato.
In merito all’importanza dell’ipnosi vigile, vorremmo ricordare che molti soggetti che ricorrono al trattamento ipnoterapeutico possono restare inizialmente scoraggiati o delusi nelle loro aspettative, alla constatazione di non essere riusciti a raggiungere un livello di trance abbastanza profonda, o per non essere riusciti ad apprezzare mutamenti significativi nel loro stato di coscienza durante il trattamento. Il più delle volte questo accade perché si crede che l’ipnosi debba necessariamente corrispondere a uno stato psicofisiologico particolarmente alterato, rispetto a quello che caratterizza lo stato di coscienza vigile. Ma in effetti le cose non stanno proprio così, poiché, come pensiamo di avere già esaurientemente chiarito nel corso del presente lavoro, l’ipnosi è raggiungibile a livelli superficiali anche in condizioni che di poco si discostano da quelle normali di coscienza vigile, ed effetti terapeutici apprezzabili possono essere ottenuti anche a partire da tale condizione, che appunto Granone chiamerebbe ipnosi vigile. A tal proposito riteniamo emblematico quanto riferito da Gérard Sunnen in merito all’esperienza dell’ipnosi:
«Esiste una larga variabilità fra i soggetti nella loro esperienza dell’ipnosi (Hilgard, 1965; Freundlich 1974) […] Nelle situazioni cliniche, alcune persone escono dall’esperienza ipnotica stupefatte di aver provato uno stato mentale così ampiamente diverso rispetto al loro normale stato di veglia, mentre altre riferiscono di non aver sperimentato niente di inusuale. Nel primo caso, l’impatto vivido dell’esperienza servirà a facilitare l’ulteriore e futuro lavoro ipnotico, attraverso la convinzione del soggetto che un qualche fenomeno tangibile si sia indubbiamente verificato. Nel secondo caso, nonostante l’assenza di qualunque nuova sensazione durante l’esperienza ipnotica, i soggetti potranno comunque riportare, con loro grande sorpresa, un’ampia gamma di effetti ipnotici. Per esempio, cito il caso di una donna di circa trent’anni, gravemente sovrappeso e con una lunga storia alle spalle di tentativi fallimentari nel seguire diete alimentari. La donna uscì delusa dalla sua prima esperienza ipnotica: immaginava che durante la trance avrebbe sperimentato sentimenti molto particolari, mentre in effetti dopo la seduta ipnotica riferì di aver percepito soltanto un livello di rilassamento più profondo. Ma nel periodo successivo, quando il trattamento ipnotico della donna proseguì, contestualmente alla somministrazione di suggestioni orientate all’adozione non problematica di programmi nutrizionali, ella riferì con sorpresa che nonostante l’assenza di cambiamenti soggettivi durante le sedute ipnotiche, era stata capace di rendere effettivo il messaggio suggestivo e di seguire le diete alimentari, quasi come se agisse automaticamente e senza sforzi»  (Sunnen, 1998).
Ci sembra che sia molto chiaro, dal quadro fornito da Sunnen, che il resoconto di questa paziente rappresenti un caso evidente di efficacia terapeutica di ipnositerapia condotta in uno stato di ipnosi vigile, anche se l’autore non fa riferimento a questo concetto particolare, formalizzato da Granone, ma comunque presente e riportato con sfumature diverse nei lavori di diversi ricercatori.»


Bibliografia
Manca Uccheddu Ornella, Viola Antonello (2005). Ipnosi e Suggestione in Psicoterapia, Giuffré editore, Milano, 6, 198-202.