mercoledì 22 giugno 2016


L’IMPORTANZA DELL’AUTOCOMPASSIONE COME RISORSA DELL’EGO

I bambini i cui genitori sono poco amorevoli, o eccessivamente ipercritici, denigratorii o autoritari, sovente diventano individui adulti invischiati in una lotta intrapsichica con la loro autocritica, e spesso con tutte le difficoltà che possono essere legate anche a un’elevata tendenza critica o giudicante nei confronti degli altri. Spesso le persone eccessivamente autocritiche si abituano ad attribuire (anche in mancanza di prove tangibili) le ragioni di esiti negativi o circostanze poco gradite a una serie di generalizzazioni fisse o rigide che hanno a che fare con delle loro caratteristiche negative, piuttosto che con una serie di fattori oggettivi di causa-effetto. Per esempio, per un individuo intrappolato nella sua autocritica, un risultato non eccellente a un esame o il suo mancato superamento, il non superamento di una prova di selezione per un posto di lavoro, la fine di una relazione, potrebbero trasformarsi in occasioni di grave auto-biasimo e di grave auto-frustrazione depressiva. In questi casi la voce interna autocritica potrebbe suggerire frequenti pensieri autocritici di questo tipo:

• "Ho avuto una brutta valutazione perché sono un idiota e non valgo abbastanza, e difficilmente riuscirò a cambiare."
• "Non sarò mai in grado di ottenere un lavoro decente, perché si accorgono subito e continueranno a rendersi conto che sono un vero disastro."
• "Mi ha lasciato perché non c'è niente di buono o di amabile in me. Chi può biasimarlo/a? "

Ovviamente le personalità sufficientemente sicure e con un Ego abbastanza armonico e resiliente, generalmente riescono a capire realisticamente le ragioni dei loro fallimenti e a reagirvi in modo propositivo, utilizzando il loro spirito autocritico per risolvere i problemi connessi, interrogandosi su ciò che avrebbero potuto fare diversamente (senza inutili rimuginazioni) e cosa potrebbero fare per apportare dei cambiamenti positivi in futuro. Questo purtroppo non accade per quegli individui che hanno strutturato modelli di attaccamento insicuro, a causa di ripetute esperienze di abbandono/abuso e di deprivazione emotiva.

Come suggeriscono svariati studi psicologici, in un individuo la presenza di una notevole tendenza all’autocritica è spesso il risultato del processo di interiorizzazione, durante l’infanzia, di una marcata ricorrenza di valutazioni dure e/o abusanti da parte dei genitori, come pure di una serie reiterata di esperienze di deprivazione emotiva e di inadeguato supporto accuditivo ed emotivo. Generalmente, i figli di madri e/o padri aggressivamente critici e giudicanti, in terapia riferiscono di trovare una notevole difficoltà a sopprimere o attenuare la propria voce interna autocritica e auto-frustrante, persino con l’aiuto del terapeuta. Accanto alla pesante eredità di un pervasiva inclinazione a un malsano senso di colpa e/o di paura-vergogna, le madri anaffettive, o affettivamente disimpegnate (o “non sufficientemente buone”, come le chiamerebbe il grande psicoanalista del secolo scorso D. Winnicott), spesso lasciano in eredità ai loro figli anche un “attaccamento insicuro” e una notevole difficoltà nella capacità di regolare le emozioni negative.
In ambito psicoterapeutico si è ampiamente d’accordo sul fatto che l’acquisizione della capacità di auto-compassione ed auto-accettazione costituisca una strategia efficace per tutti coloro che cercano di risolvere esperienze traumatiche e crisi irrisolte ascrivibili all’infanzia, e che hanno bisogno di un aiuto nel tentativo di affievolire (e nel migliore dei casi mettere a tacere) quella voce interna eccessivamente autocritica e frustrante (ciò che la psicoanalisi chiamerebbe un “SuperIo” rigido e frustrante). In aggiunta, una serie di studi ha mostrato che l’autocompassione supporta la resilienza dell’Ego negli eventi fallimentari, e sostiene inoltre il processo di cambiamento positivo e di auto-miglioramento.
Ma che cos’è esattamente l’auto-compassione? Proprio come la compassione comporta una sensibilità per la sorte degli altri, e conseguenti atteggiamenti e comportamenti di cura e comprensione per queste persone, allo stesso modo l'auto-compassione rivolge la cura e la comprensione verso il proprio Sè. La psicologa statunitense K.D. Neff ritiene che l’autocompassione richiede la capacità di vedere il proprio dolore nel più ampio contesto delle esperienze dell'umanità, e come  parte di essa: è necessario che si tratti se stessi con la stessa benignità che il proprio Sé compassionevole offrirebbe agli altri (questa forma di comprensione è tratta dal buddismo, come probabilmente sapete). Ciò che è importante è che l’autocompassione non sia qualcosa come l’autocommiserazione, poiché quest’ultima si concentra su di sé come un Sé separato dagli altri, e promuove inoltre l’idea di un "povero me", un punto di vista che generalmente dipinge il Sé come peggio di chiunque altro, e che probabilmente porterebbe la stessa persona a rafforzare dentro di sé un processo di autoreferenzialità e di egoismo.
Neff descrive l’autocompassione come costituita da tre parti, che parafrasando lo stesso autore potremmo descrivere come:

·       estendere la gentilezza e la comprensione a se stessi, piuttosto che il giudizio critico;
·       vedere la propria esperienza come parte della più ampia esperienza umana;
·       mantenersi consapevoli dei propri sentimenti dolorosi, senza iperidentificarsi con essi.

Tuttavia, per le persone che hanno vissuto ripetute esperienze di abbandono e deprivazione emotiva genitoriale, non è semplice applicare tutti e tre questi passaggi, poiché il primo si basa sulla capacità di amare se stessi, cosa che in queste persone solitamente scarseggia, il secondo invece si basa sul mito per cui tutte le madri siano buone e amorevoli, cosa che fa sentire a queste persone un senso di isolamento e suggerisce di non credere che i loro problemi siano simili a quelli di altre persone; e infine, la maggior parte delle persone con un attaccamento insicuro hanno difficoltà a gestire le emozioni negative, cosa che rende loro molto difficile il terzo passaggio.
Per agevolare un lavoro di consapevolizzazione e di strutturazione della capacità di autocompassione  potrebbe essere utile, come strumento di introspezione e autoanalisi, il questionario di Neff (il cui focus riguarda “Come mi comporto tipicamente nei miei confronti nei momenti difficili”), una scala breve che valuta le proprie capacità quando si tratterebbe di essere autocompassionevoli. Si può rispondere alle affermazioni di questo questionario su una scala che va da 1 a 5, dove 1 corrisponde a “quasi mai”, e 5 a “quasi sempre”. Alla fine non è necessario valutare il punteggio globale del questionario, piuttosto riflettete sulle vostre risposte (per una valutazione si rimanda a un lavoro personale di psicoterapia, che sia accompagnato da un processo terapeutico più ampio).

1.quasi mai   2.un poco frequente   3.moderatamente frequente   4.molto frequente   5.quasi sempre

_____1. Quando non riesco in qualcosa che per me è importante vengo consumato da sentimenti di inadeguatezza.
_____2. Cerco di essere comprensivo e paziente verso quegli aspetti della mia personalità che non mi piacciono.
_____3. Quando accade qualcosa di doloroso cerco di farmi una visione equilibrata della situazione.
_____4. Quando mi sento giù, tendo a sentire come se la maggior parte delle altre persone sono probabilmente più felici di me.
_____5. Cerco di vedere i miei difetti come parte della condizione umana.
_____6. Quando sto attraversando un momento molto difficile, mi concedo la cura e la tenerezza che mi serve.
_____7. Quando qualcosa mi sconvolge cerco di tenere le mie emozioni in equilibrio.
_____8. Quando non riesco in qualcosa che è importante per me, tendo a sentirmi solo nel mio fallimento.
_____9. Quando mi sento giù tendo a ossessionarmi e a fissarmi su tutto ciò che è sbagliato.
_____10. Quando in qualche modo mi sento inadeguato, cerco di ricordare a me stesso che i sentimenti di inadeguatezza sono condivisi da una buona parte delle persone.
_____11. Sono disapprovante e giudicante al riguardo dei miei difetti e carenze.
_____12. Sono intollerante e impaziente verso quegli aspetti della mia personalità che non mi piacciono.

Poiché la ricerca mostra che l’autocompassione davvero aiuta le persone ad affrontare i tempi difficili e a diminuire o fermare il processo di rimuginazione (un’altra delle cose che spesso affliggono le persone che hanno vissuto esperienze di deprivazione emotiva o abbandono da parte dei genitori), come si potrebbe cercare di costruire questa capacità, così da usarla efficacemente per mettere a tacere o indebolire la voce interna autocritica?
Ecco a seguire alcuni suggerimenti aneddotici, un po' mediati e derivati da alcune tecniche psicoterapiche e da alcuni costrutti psicologici, e che potrebbero essere d’aiuto sulla strada per l’auto-compassione. Nel fare queste cose è importante sforzarsi di utilizzare una buona elaborazione percettiva, per cui si ricorderà il “perché” ci si è sentiti in un certo modo, e non il “come” ci si è sentiti: questo è importante poiché pensare al “come” fa rivivere il momento doloroso, e in relazione allo scopo che qua ci proponiamo sarebbe inopportuno  (diversamente dal contesto psicoterapeutico, in cui si dispone della mediazione attenta e qualificata di uno psicoterapeuta che può aiutare ad elaborare tutte le emozioni che dovessero emergere).

1. Procurati una tua foto di quando eri bambino/a e trascorri un po’ di tempo con essa.
Guarda quel bambino/a (tu) e vedilo/a come farebbe un estraneo. Che cosa vedi di simpatico e attirante in lui/lei?  Parla con quel bambino e forniscigli un qualche conforto. E mentre ti trovi lì, chiediti perché qualcuno potrebbe mai pensare che quel bambino fosse qualcosa di meno che adorabile.

2. Focalizzati su una cosa che ami di te.
Può essere una caratteristica, per esempio il modo in cui sorridi alle persone o li metti a loro agio, oppure un talento, una capacità, ma in ogni caso dovrebbe essere qualcosa di cui ti senti orgoglioso/a. Pensa al riguardo della voce critica e di come ignora le tue qualità positive. Anche scrivere qualcosa su di te seguendo questa procedura potrebbe essere utile.

3. Fai dell’auto-compassione un obiettivo.
Puoi applicarti attivamente per la realizzazione della tua autocompassione proprio come faresti per raggiungere qualsiasi altro importante obiettivo: prendi nota dei progressi che fai senza ripiegare al punto di vista autocritico e frustrante, e ricompensati piacevolmente per i tuoi successi, così che attui dei costruttivi rinforzi positivi per te stesso.

4. Chiediti: mostrerò a me stesso/a compassione?
Gli studi mostrano che, contrariamente alla credenza popolare, le affermazioni non motivano come le domande. Scrivi in un foglietto la domanda e appendilo in un posto dove lo puoi vedere facilmente e frequentemente. Ricorda a te stesso che questo è un processo da compiersi passo dopo passo, e che i piccoli passi vanno bene. Quello che importa è raggiungere l’autocompassione.  

In generale le ricerche in ambito psicologico hanno suggerito che l’autocompassione può essere un’utile strategia per la regolazione delle nostre emozioni e quietare la voce interna autocritica e frustrante. A volte il raggiungimento di questa capacità rappresenta il traguardo di un processo di crescita psicologica naturale, altre volte, quando le risorse di un individuo sono bloccate a causa di una costellazione di fattori psichici legati a una serie di antecedenti evolutivi sfavorevoli, potrebbe essere necessario un valido percorso di psicoterapia individuale.


Dott. Antonello Viola
Psicologo-Psicoterapeuta
Studio Psicoterapia e Consulenza
Via P. da Palestrina, 15 -  Sinnai (CA)
Tel. 070780180 - Cell. 3200757817
email: antonello.viola@gmail.com
Sito web: www.antonelloviola.com

martedì 12 aprile 2016

                                  Aaron Beck, il pioniere delle scienze cognitive


BECK PROPONE UNA TEORIA INTEGRATIVA DELLA DEPRESSIONE

In un nuovo articolo pubblicato su “Clinical Psychological Science”, Aaron Beck, il pioniere della scienza cognitiva che ha rivoluzionato la ricerca scientifica sulla depressione, e il suo collega Keith Bredemeier, dell’Università di Pennsylvania, mirano ad integrare i risultati ottenuti in una serie di importanti studi sulla depressione, per sviluppare un modello teorico globale e coerente del disturbo.
Con il loro modello unificato, Beck, James McKeen Cattell Fellow e Bredmeier, attingono dai risultati ottenuti a vari livelli di analisi in discipline diverse, tra cui cliniche, cognitive, biologiche e approcci evolutivi, e forniscono un quadro ampio che spiega la sintomatologia della depressione e il suo corso naturale, dalla sua insorgenza alla guarigione: “Tutte le scoperte e i risultati ottenuti in relazione alla depressione possono essere messi insieme per fornire un modello globale del disturbo che ne spiega le sue stupefacenti caratteristiche”, scrivono gli autori. Il loro modello unificato si basa sulla premessa che la depressione rappresenta un adattamento alla perdita percepita di risorse umane essenziali che consentono l'accesso ai bisogni della vita - tra cui la perdita di un membro della famiglia, un partner, o un gruppo di pari. Per le persone che sono più a rischio di grave depressione, a causa di fattori genetici o ambientali specifici, è più probabile che questa perdita sia percepita come devastante e insormontabile.
L’elevata reattività allo stress e le radicate distorsioni cognitive portano queste persone a rischio a coltivare convinzioni negative su se stesse, il mondo e il futuro, una combinazione che lo stesso Beck ha denominato “triade cognitiva negativa”. Una volta attivate (per esempio da eventi di vita stressanti), queste credenze innescano tutta una serie di emozioni ad esse coerenti, come la tristezza, l’anedonia, il senso di colpa, così pure come risposte comportamentali e fisiologiche come il ritiro, l’inattività, la perdita dell’appetito. La funzione generale di questo cosiddetto "programma della depressione", dicono gli autori, è quello di promuovere la conservazione d’energia, a fronte della perdita percepita di risorse. Nel corso del tempo, il “programma depressivo” rafforza le convinzioni negative, che prima di tutto mettono le stesse persone a rischio di depressione. Questo programma può essere fermato quando le risorse vitali vengono ripristinate, sia perché emergono nuove informazioni che correggono le distorsioni cognitive-pensieri negativi, o perché la situazione di per sé è cambiata. Fattori esterni come il sostegno di amici e familiari, la guida di uno psicoterapeuta, e il trattamento biologico (ad esempio i farmaci) possono aiutare a fermare il “ciclo della depressione”.
"Il nostro modello suggerisce che ogni intervento che ha come obbiettivo i fattori chiave che predispongono o che acuiscono, o i fattori di resilienza, può ridurre il rischio o alleviare i sintomi della depressione", spiegano Beck e Bredemeier.


giovedì 10 marzo 2016

Recentemente ho avuto il piacere di essere intervistato dalla sociologa Enza Angela Massaro, giornalista della testata giornalistica online Fanpage.it, su una serie di tematiche riguardanti la dipendenza affettiva e le relazioni di coppia.

Con lo stesso piacere di seguito condivido i link con i diversi estratti dell'intervista:

  http://autori.fanpage.it/la-codipendenza-affettiva-il-parere-dell-esperto/

  http://autori.fanpage.it/in-amore-vince-sempre-chi-fugge/

  http://autori.fanpage.it/voce-del-verbo-amare/




lunedì 7 marzo 2016

       


La codipendenza affettiva: il parere dell’esperto
Uno studio sulle dipendenze affettive: la codipendenza, la strategia di controllo, lo sviluppo della personalità dipendente.

venerdì 26 febbraio 2016

9 caratteristiche delle personalità dipendenti






La personalità dipendente è caratterizzata da una serie di tratti che si estrinsecano come atteggiamenti e comportamenti frequentemente ricorrenti: di seguito vengono riportati quelli maggiormente caratteristici. 
Naturalmente ciò che distingue il livello di difficoltà nel funzionamento psicosociale è la frequenza della ricorrenza di questi tratti.


1. Le persone dipendenti hanno difficoltà a prendere decisioni nella quotidianità, senza sostegno e rassicurazione. 
2. Hanno bisogno degli altri per assumersi le responsabilità nella maggior parte delle aree della loro vita.
3. Hanno difficoltà a dissentire o esprimere un diniego senza sperimentare una notevole angoscia o paura.
4. Hanno una forte difficoltà a iniziare un progetto senza il sostegno o l'approvazione degli altri. 
5. Si sentono ansiose o stressate quando sono sole, o quando pensano di restare sole.
6. Si sentono frequentemente responsabili quando succedono cose negative. 
7. Sentono un forte carico di responsabilità per soddisfare le aspettative degli altri.
8. Hanno una forte necessità di essere validate e approvate dagli altri. 
9. Sono incapaci di creare o difendere i confini personali (confini del Sé, confini relazionali): spesso si coinvolgono in relazioni simbiotiche o invischiate, o sono incapaci di uscire da rapporti in cui subiscono maltrattamenti.

Ovviamente il dinamismo psichico della personalità dipendente è il prodotto di una struttura e organizzazione di personalità che si è costituita in relazione a una serie di antecedenti evolutivi, di eventi, di relazioni primarie e di fattori ambientali che hanno determinato lo sviluppo di una serie di schemi mentali disfunzionali e di nuclei complessuali che si pongono alla base del malessere e del disadattamento. 

 Anche nel caso della personalità dipendente, molto si può fare con la psicoterapia.


Studio Consulenza Psicologica e Psicoterapia
Dott. Antonello Viola
Cagliari - Via San Lucifero, 65
Quartu Sant'Elena - Via Irlanda, 2
Tel. 3200757817